Una miniserie cupa e filologica ricostruisce i delitti del Mostro di Firenze, tra atti processuali, memoria collettiva e nodi irrisolti che ancora oggi inquietano il Paese
Da decenni il nome Mostro di Firenze risuona come una ferita aperta nella memoria collettiva italiana. Ora quel capitolo buio della cronaca torna al centro del dibattito culturale grazie alla miniserie Il mostro, produzione Netflix disponibile dal 22 ottobre e diretta da Stefano Sollima, regista noto per lavori come Gomorra e ZeroZeroZero. Una storia reale, già, che nessuno ha mai smesso di interrogare, e che ora prende forma attraverso un linguaggio vicino al true crime e al cinema d’indagine più rigoroso. Presentata fuori concorso alla Mostra di Venezia, la serie ripercorre gli omicidi avvenuti tra il 1968 e il 1985 nelle campagne toscane, ricostruendo un mosaico di violenza, sospetti e fallimenti investigativi. Non un horror inventato, ma una cronaca feroce che l’Italia conosce bene, e che ancora oggi divide storici, magistrati e opinione pubblica.
Un racconto che segue atti, testimonianze e le strade tortuose delle indagini
Sollima sceglie una regia asciutta, quasi ferma, che accompagna lo spettatore dentro i corridoi delle procure, nei casolari isolati del Chianti, nei paesi segnati dalla paura. Le riprese nei veri luoghi dei delitti — Firenze, Scandicci, Montespertoli e gli altri angoli della campagna toscana — danno peso alla narrazione, che non scivola mai verso il sensazionalismo ma resta aderente ai documenti giudiziari e alla cronaca dell’epoca. La fotografia di Paolo Carnera insiste sui chiaroscuri, sui volti segnati e sulle strade sterrate che evocano un’Italia sospesa tra vecchie tradizioni e modernità incerta.

La storia si apre nel 1982, con l’omicidio di una giovane coppia a Baccaiano di Montespertoli, e da lì si allarga al passato, fino al primo delitto riconosciuto, quello di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco nel 1968. Un salto continuo tra epoche e indizi, tra procure che si passano fascicoli e piste investigative che si contraddicono. Al centro c’è la figura del sostituto procuratore Silvia Della Monica, interpretata da Liliana Bottone, che segue la scia di sangue e si scontra con gli ostacoli della macchina giudiziaria. Lo spettatore osserva gli interrogatori, gli errori, le piste interrotte, la pressione mediatica che cresce e una comunità che vive nella psicosi collettiva.
Il cast dà corpo a un ambiente cupo, fatto di silenzi e sospetti. Marco Bullitta porta in scena uno Stefano Mele fragile, tormentato, mentre Valentino Mannias e Giacomo Fadda interpretano i fratelli Vinci, figure controverse, segnate da gelosie e violenze domestiche. Antonio Tintis veste i panni di Giovanni Mele, interpretazione tesa, disturbante. Poi, nelle battute finali, emerge un nome che resta inciso nella storia giudiziaria italiana: Pietro Pacciani. Sollima non indica colpevoli, non chiude i cerchi, preferisce mostrare la complessità delle indagini, la fragilità della verità giudiziaria e il peso degli errori che hanno caratterizzato quel periodo.
Un’opera che evita miti e mostri facili e restituisce un Paese smarrito
La serie non punta a mitizzare il male, né a fornire risposte che la realtà continua a negare. Il montaggio alterna atti processuali e scene di vita quotidiana, lasciando emergere un Paese che fatica a riconoscersi. L’Italia tra gli anni Sessanta e Ottanta appare rurale, superstiziosa, segnata da diffidenza e paura, con un apparato statale spesso incapace di trovare equilibrio tra rigore e incertezza. La scelta di Sollima è chiara: raccontare l’orrore senza trasformarlo in spettacolo, seguendo un registro sobrio, quasi documentaristico.
Le reazioni del pubblico confermano l’impatto. In una sola settimana, la serie ha raggiunto 9,6 milioni di visualizzazioni secondo i dati forniti dalla piattaforma, ottenendo 38 milioni di ore viste e la vetta delle classifiche internazionali tra i contenuti non in lingua inglese. Un dato che segnala quanto la vicenda continui a colpire, a distanza di quarant’anni dai fatti. Non a caso, storici della giustizia e criminologi stanno tornando sui dossier del Mostro di Firenze, ricordando come quel caso abbia segnato profondamente l’immaginario italiano e acceso interrogativi mai sopiti sul funzionamento delle indagini e sull’efficacia del sistema giudiziario.
Quattro episodi, ciascuno vicino all’ora di durata, compongono un racconto che punta a inquietare più che a spiegare. Il pubblico non trova certezze, ma una rappresentazione viva degli errori, dei sospetti reciproci e delle fratture sociali che accompagnarono quei delitti. Il risultato è un ritratto dell’Italia ferita, dove ogni passo avanti sembra aprire nuove domande, e dove la ricerca della verità resta, ancora oggi, un sentiero incompleto. Il mostro non mostra un passato lontano, mostra un nervo scoperto che il Paese non ha mai del tutto rimarginato.
